Per un basìn

XVII Concorso Letterario Tuttiscrittori – Terzo classificato

Atti contrari alla pubblica decenza. Da più di sessant’anni, la Gisella legge e le scappa da ridere. Non è roba da tutti, d’altra parte, avere un verbale di polizia in prima pagina nell’albo di famiglia.

L’anno 1960, addì 20 del mese di gennaio…, va avanti a leggere la Gisella. Ma la storia la sa meglio lei del vigile che ha sottoscritto il verbale con una firma che non si riesce a leggere.

A raccontarla di fino, la faccenda era cominciata un bel pezzo prima del 20 del mese di gennaio del 1960, quando la guerra era ancora lì dietro l’angolo, e le vie di Milano erano ancora ingombre delle macerie dei bombardamenti.

La Gisella era una bambina, ma si ricorda bene l’impressione di vedere tubi e mattoni, terra e vetri rotti là dove c’era la sua casa, al primo piano di una bella palazzina, in via del Conservatorio. Lei e la sua famiglia, papà, mamma e il fratello piccolo, erano sfollati in Brianza, da certi parenti di campagna. E lì erano stati costretti a rimanere per un bel pezzo, nel mentre che i resti della loro casa venivano seppelliti nella montagnetta di San Siro, tomba delle case di mezza Milano.

Della vita da sfollata, la Gisella ha in mente ancora adesso il dormire stretta stretta insieme alle cugine, in un letto alto e duro, che non era mai caldo. E, soprattutto, ha in mente un ragazzino mingherlino, con due occhioni scuri grandi così, che portava le scarpe solo la domenica e stava di casa in una cascina in fondo alla strada, insieme a sei fratelli, tutti più grandi di lui.

Il Carlìn, così si chiamava, l’aveva presa subito in simpatia, forse perché avevano giusto la stessa età, e le aveva insegnato a pescare nei fossi e a non aver paura dei rospi, anche se erano proprio brutti da vedere. L’aveva presa in simpatia alla sua maniera, per la verità, con il fare scorbutico dei timidi, per di più venuti su in campagna.

La guerra era dietro l’angolo, ma si guardava avanti e, nel giro di pochi anni, diventò una roba lontanissima, uguale al brutto sogno di un bambino. La Gisella tornò ad abitare a Milano, in una casa più piccola e più scomoda di quella di via del Conservatorio. Anche la zona era tutta differente, in periferia, un pezzo fuori porta Garibaldi, al confine con Sesto San Giovanni. Non era bella come via del Conservatorio, ma era pratica per suo papà, che aveva trovato lavoro come impiegato alla Manifattura Tabacchi.

Nella casa piccola, scomoda e di periferia, la Gisella riuscì a diplomarsi maestra, e persino a studiare il pianoforte, come le signorine di buona famiglia. Fu fortunata e trovò subito un impiego alle elementari “Vittorio Locchi”, in via Passerini. Le aule erano ampie, coi soffitti alti e le finestre grandi per far entrare il sole e la luce, e gli alunni erano i figli degli operai, dei contadini e degli artigiani che popolavano il quartiere di Niguarda.

Per andare a scuola, la Gisella passava tutti i giorni davanti alla Pirelli, proprio quando la sirena chiamava in fabbrica gli operai, dopo la mensa di mezzogiorno. E più di uno notava la bella tusa con gli occhi celesti e i libri sotto braccio, che camminava svelta sui tacchi bassi. Qualcuno, più audace, fischiava, e la Gisella diventava rossa e camminava ancora più svelta.

Finché un giorno, in mezzo alle tute blu, fu la Gisella a notare qualcuno, e a rallentare il passo. Non era più mingherlino, ma aveva ancora l’aria un po’ scorbutica e due occhioni scuri grandi così, che fecero fare un salto al cuore della maestra.

– Carlìn! – gli fece segno la Gisella, ma quasi di nascosto, perché non stava bene salutare un giovanotto per la strada, anche se avevi pescato insieme a lui nei fossi mica tanto tempo prima.

– Gisella! – la conobbe subito il Carlìn, anche se non aveva più le treccine e le calzette bianche di pizzo.

Da bella tusa che era, alla Gisella non mancavano i corteggiatori, e non solo tra gli operai della Pirelli. Tra tutti, però, lei scelse subito il saltafossi venuto dalla Brianza, che conservava le maniere un po’ brusche dei contadini.

Alla fine degli anni Cinquanta, una ragazza per bene non usciva di sera, e andava a ballare solo la domenica pomeriggio, portandosi dietro la mamma, che stava lì a far la maglia al bordo della pista a controllare che i ragazzi fossero rispettosi. La Gisella era una ragazza per bene, ma era anche un’innamorata. Così, oltre a ballare sotto gli occhi burberi di sua mamma, cercava di incontrare il suo Carlìn qualche volta di più.

– Dov’è che ci hai la testa? – le diceva sua mamma, perché tutti i giorni si dimenticava il latte, o il lardo, o le cipolle. E doveva uscire di corsa a prenderle all’ora di metter su la minestra. Che era giusto quando venivano fuori gli operai.

Con la sporta in mano, la Gisella faceva mostra di passare per sbaglio davanti ai cancelli della Pirelli, anche se doveva allungare di un pezzo la strada. Alla stessa maniera, il Carlìn faceva finta di fermarsi a fumare una sigaretta, alla fine del turno, giusto per non far vedere che era proprio lì ad aspettarla. Dopo l’incontro casuale, che casuale non era, la Gisella si lasciava accompagnare fin sotto casa, e poi salutava il Carlìn con un gran sorriso e una stretta di mano.

Solo sorrisi e strette di mano, e non solo perché non stava bene. Con la fine degli anni Cinquanta, infatti, era arrivata in Italia la bella novità della campagna antibacio, come l’aveva battezzata la Domenica del Corriere.

Forse era stato per via della guerra, che aveva buttato tutto per aria, compresa la moralità, o forse era stata la voglia di vivere che era venuta subito dopo, con i giovani che non vedevano l’ora di recuperare tutto quello che avevano perso sotto i bombardamenti. Come che fosse, la pubblica immoralità aveva dilagato, portando nelle strade baci e abbracci che attentavano alla decenza, e qualche questore aveva deciso che era arrivato il momento di tirare le briglie, prima che tutto finisse, fuor di metafora, in un gran bordello.

A Torino, per esempio, il questore Ferrante aveva spedito le sue pattuglie speciali nei cinematografi e, in una battuta sola, aveva portato a casa qualcosa come settanta diffide per altrettante coppiette pescate a baciarsi nello scuro della sala. La pena non era roba da ridere: reclusione da tre mesi a tre anni per atti contrari alla pubblica decenza. Anche se era scuro, e anche se nessuno vedeva, a parte un vigile bigotto.

Anche a Milano, la Gisella e il suo Carlìn dovevano perciò accontentarsi di stringersi la mano e di guardarsi negli occhi, prima di darsi la buonasera. A ingarbugliare il cuore dei due innamorati, c’era in più il fatto che anche il futuro non sembrava promettere molto di più: con tutta la simpatia per il Carlìn, la famiglia della Gisella sperava in qualcosa di più di un fidanzato operaio. D’altra parte, una bella tusa, fine e che aveva studiato persino il pianoforte, poteva ambire a sposare addirittura un dottore.

– Posso mica scappare di casa… – diceva la Gisella mogia mogia al suo Carlìn.

– Ci ho mica colpa io se non son nato dottore, – borbottava lui tutto mortificato.

Senza un domani, non si può andare avanti. Così la Gisella arrivò alla fine a pensare che era inutile star lì tutti e due a tormentarsi il cuore se non c’erano speranze.

– È meglio chiuderla qui, – disse, senza riuscire a guardare in faccia il suo innamorato.

Il Carlìn fece un gran sospiro, nel mentre che si cercava i piedi.

– Va bene, – mormorò, che lo sapeva anche lui che non si poteva fare altrimenti, – Però prima voglio una cosa.

La Gisella alzò gli occhi dal marciapiede.

– Un bacio, – disse il Carlìn con gli occhi che luccicavano, – Un bacio d’addio.

Era inverno, e il buio era sceso da un pezzo. Il gelo che mordeva le dita aveva vuotato la strada, facendo correre i passanti a casa, dalle cene calde. A dare una mano ai due innamorati, c’era anche un lampione rotto. La Gisella guardò un’altra volta intorno, e poi si decise.

I milanesi non sono famosi per essere gente particolarmente passionale. Ma forse fu l’aver aspettato tanto, o forse il fatto che, di bacio, ci sarebbe stato solo quello, primo e ultimo allo stesso momento. Come che fosse, i due si perdettero a tal punto da non sentire la neve che scricchiolava tutta impaurita sotto un passo feroce che veniva quasi di corsa. Sentirono solo uno strattone, e una voce che tuonava:

– Siete in arresto! Tutti e due!

Un momento, e scoppiò una baraonda. Le grida del vigile chiamarono tutti alle finestre, compresi i genitori della Gisella, che guardarono fuori giusto a tempo per vedere la figlia portata via con l’accusa di atti contrari alla pubblica decenza urlata forte in mezzo alla strada.

Mezz’ora, e tutta la famiglia era davanti al questore, che guardava i due accusati con una faccia da Diesire.

– Un bacio lungo, – ringhiò il vigile, – Stretti in un abbraccio osceno!

La mamma della Gisella scoppiò in singhiozzi, nascondendo la faccia nel fazzoletto.

– Ma signor questore, – provò il Carlìn tutto rosso, – Non ci ha visti nessuno…

– Nessuno un corno! – saltò su il vigile, – E io chi sono?

La Gisella aveva gli occhi sul pavimento per la vergogna di essere trattata come una donnaccia, e anche per schivare lo sguardo di suo papà che faceva tuoni e fulmini. Il questore la squadrò da capo a piedi e tirò fuori il suo tono più duro:

– Signorina, lei è anche una maestra! Un’educatrice dovrebbe dare per prima il buon esempio!

La Gisella alzò la testa, guardò il suo Carlìn tutto mortificato, con gli occhi in terra e il cappello in mano. E un’onda di tenerezza le accese un’improvvisa ispirazione.

– Signor questore, sia comprensivo… Ci sposiamo tra poco…

Un fulmine avrebbe fatto meno effetto. L’accenno al matrimonio fece alzare di scatto la testa del Carlìn, levò colore dalle guance del papà della Gisella e fece crollare sulla sedia sua mamma, pronta a svenire.

– E quand’è che vi dovreste sposare? – alzò un sopracciglio diffidente il questore.

La Gisella fece svelta un calcolo del tempo minimo tra pubblicazioni e tutto.

– Tra un paio di mesi.

Il questore guardò i due sedicenti promessi sposi, poi scambiò un’occhiata col vigile.

– Allora mi mandate l’invito al matrimonio, – puntò l’indice sugli accusati, – Oppure ci vediamo qui tra due mesi. E un annetto di reclusione non ve lo leva neanche il Padreterno. Sono stato chiaro?

Costretta a scegliere tra un genero operaio e una figlia in galera per atti osceni, la famiglia della Gisella decise che il Carlìn, alla fin della fiera, era un onesto lavoratore, che veniva da una famiglia per bene. E tutti i salmi andarono in gloria.

La Gisella chiude l’album di famiglia, con il verbale conservato in prima pagina.

– Cosa dici? – sorride al suo Carlìn, seduto in poltrona a leggere il giornale, – Alla fine è ci andata bene.

Il Carlìn alza gli occhi dal suo giornale.

– Andata bene un par di balle, – bofonchia, – Potevo farla fuori con un annetto, e invece ho preso l’ergastolo!

Ma la Gisella, dopo sessanta e passa anni, ormai lo conosce bene.

– Ma muccala lì, e dammi un basìn! – sorride.

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2 commenti

  1. Grazie tantissimo per questo racconto meraviglioso. Adoro i dettagli di storia che informano tutti i suoi racconti. Io sono nato nel ’57 e ho spesso considerato che effettivamente la guerra “era dietro l’angolo” in quegli anni. Ancora grazie, non vedo l’ora di leggerLa ancora. Un cordiale saluto Peter Thompson

    • Sono io che la ringrazio per la sua cortesia e per i suoi complimenti. Sono davvero contenta che i miei lavori le siano piaciuti.
      Ne approfitto anche per ringraziarla per la recensione che ha lasciato a Ballata laghera: mi ha fatto moltissimo piacere.
      Un saluto cordiale

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